RoomScape di Michele Liparesi (Bologna 1986) ci offre in principio un’esperienza simile. L’ambiente ricorda un ufficio anonimo, semibuio. I macchinari bianchi – per un uso difficilmente identificabile– emanano una luce sintetica e costante; sono disposti senza un apparente ordine ma nell’insieme costituiscono un paesaggio o, più precisamente, uno scheletro di paesaggio: un’urbe di forme essenziali, vagamente familiari.
RoomScape si distingue per un’impostazione minimalista, rinuncia all’espansività plastica costruendo tuttavia un luogo quasi nostalgico.
La sua nostalgia è però equivoca, ostile. A differenza di Anaktisi, lavoro precedente di Liparesi, in cui il rapporto tra lo spazio e l’osservatore è la chiave di lettura dell’architettura criptica, nell’attraversare RoomScape ci rendiamo conto che non c’è una collocazione contemplata per i nostri corpi, nessuna relazione da instaurare. Lo scenario non appartiene all’universo delle cose vive, ma a quello delle forme vive.
Le strutture architettoniche si mostrano apertamente, rimanendo tuttavia impenetrabili alla nostra percezione. Colme di una luce artificiale, pazientemente attendono l’inevitabile arrivo della loro era. Il loro futuro ci ha già superati.
Mostra, testo e foto a cura di Yulia Tikhomirova,
video di Davide Spina